Da 0 a 10: la mini bomba di ADL, il retroscena di Calzona su Cagliari, la ‘truffa’ Osimhen e la nascita di un nuovo titolare
Zero a quelli ‘si ma era il Sassuolo’. E DUNQUE? Ma c’eravate voi, quando abbiamo sofferto come cani abbandonati in tangenziale contro Salernitana e Verona? Dove eravate quando per cinque trasferte non abbiamo fatto un tiro in porta? Quando solo arrivare in area avversaria era più utopico di un parcheggio in zona Chiaia. Quando far gol era un miraggio, come una margherita che costa meno di dieci euro in queste pizzerie contemporanee. Qui abbiamo sofferto e la sofferenza merita rispetto. E quando arriva una gioia, quella gioia la devi accogliere come un amico ritrovato. Aspettiamo altri test, nuove conferme, ma sorridiamo cavolo. Ne avevamo tutti un gran bisogno.
Uno il gol di Rrahmani, che vale molto più di un gol. C’è un’idea, di quelle che sopravvivono agli uomini, di un calcio che il Napoli aveva messo in cantina. Un difensore centrale che si spinge fino a lì, che sostiene la manovra offensiva ed attacca famelico l’area avversaria, era quello di cui tutti avevamo bisogno. La speranza, un seme da coltivare nel terreno del Mapei per attendere l’albero del ‘come eravamo’. Come disse Leonida ai suoi 300, prima di sacrificarsi per loro. “Ricorda chi eravamo”. E vogliamo ricordare, al punto che se non smettiamo ci scoppia il cervello.
Due assist Politano, che galleggia come un filo sospeso nell’aria, una brezza di vento senza sosta soffia sulla fascia destra. Un piede dopo l’altro, con Matteo che avanza nella sua incessante andatura. Corre, recupera, appoggia due volte per Victor che fa gol. Sempre con la stessa faccia, sempre con la stessa voglia. È tornato ad arare la corsia di destra anche grazie al ritrovato sostegno politico dell’onorevole Giovanni Di Lorenzo, che dopo un turno di riposo s’è riproposto a grandi livelli. Attenti a quei due.
Tre centrocampisti che si muovono in armonia, come tasti d’un pianoforte a caccia di una sinfonia: la vivacità di Traore era tutto ciò di cui aveva bisogno un reparto privato delle sgasate di Zielinski. È sbocciato un titolare nella notte del Mapei, si è issato al cielo come un aquilone a disegnare nuove traiettorie, incunearsi in spazi che erano rimasti inesplorati senza Piotr. Ha dato, con il socio Mario Rui, un nuovo respiro a Kvara, ossigeno pure per il georgiano che ha ritrovato il sostegno di cui aveva bisogno. Con Frank e Stan ora c’è Traore, che è ancora lontano dal 100% ma promette già tante cose belle.
Quattro Lobotka come Michael Keaton in ‘Mi sdoppio in quattro’. Graffi profondi nella pelle dell’avversario, come i canini di un Vampiro che preferisce l’oscurità, ma non per questo risulta meno fondamentale di chi si prende le copertine dei giornali. Stan non berrà sangue umano, ma sicuramente nella notte del Mapei nemmeno un palo frassino sarebbe riuscito a frenare il suo impeto. Costantemente in anticipo rispetto a tutti gli altri sul pallone, su quello che succederà in campo, una permanente sensazione di onnipotenza. Quando arrivano le luci dei riflettori lui sparisce, gli applausi sono per Khvicha e Victor. Nell’ombra, però, Lobotka si gode i meriti di un delitto perfetto e silenzioso.
Cinque errori sul gol preso a Cagliari, prima di quello di Juan Jesus. Calzona si prende tutti i proiettili caricati a infamia riversati sul brasiliano, svelando il suo pensiero sull’episodio che è costato due pesantissimi punti. “C’è stato linciaggio mediatico” dice Ciccio, che con la squadra avrà evidentemente analizzati tutti e cinque quegli episodi. Bisogna ripartire dalla minuziosa e scrupolosa ricerca della perfezione. E la perfezione la raggiungi quando ti inizi a convincere che nessuno e perfetto, ma tutti possono diventarlo.
Sei pappine, sia gentile. Tutta colpa di quel gol al freddo, direbbe il povero Bigica, che s’è visto sommergere di gol da un Napoli in versione ‘Indietro tutta’ alla Renzo Arbore. Indietro, come quella bellezza evaporata e riassaporata per una notte. Come un ‘Risveglio’, questa la parola chiave usata da De Laurentiis per tornare ad esultare dopo mesi su X, il figlio meno intelligente di Twitter. Lasciate tracce di bellezza a memoria futura sul campo del Sassuolo. “Il calcio bello esiste ancora, ed ora c’ho le prove” recita su una targa affissa all’esterno dello stadio dei neroverdi.
Sette e mezzo al dominante Anguissa, l’uomo della svolta e pure del destino. Un Frank da leccarsi i baffi, con quell’assist di tacco no-look e tante altre cose. Rieccole, finalmente, LE ALTRE COSE. Che sul 6-1 si getta in scivolata, per recuperare un pallone che nel recente passato avrebbe etichettato come inutile. Che si diverte, che si deve divertire per essere il calciatore totalizzante che avevamo amato e ammirato. Il destino del Napoli è legato a filo doppio ai suoi umori, alle sue sensazioni, alla sua voglia di gettarsi nel fango e lottare su ogni maledetto pallone. Se cercate motivi per sorridere questa mattina, Frank è uno di questi.
Otto gol in campionato per Kvaratskhelia, che sterza come un condottiero dell’est sulle macerie del Sassuolo, disseminando una bellezza facilmente percepibile, che non necessità di uno sforzo dell’intelletto. La vera arte è così: globale, universale, fa spalancare le mascelle senza bisogno di leggere targhette o che necessitino spiegazioni. C’è il fuoco degli uomini primitivi nelle giocate di quel demone con la 77, che se la squadra è aggressiva e recupera palla negli ultimi trenta metri del campo può fare ciò che vuole. Col destro, col sinistro, con ogni atomo di un corpo progettato per giocare a pallone. Non a calcio. Ma il pallone. Puro istinto, tempesta e impeto. Quanta dannata meraviglia.
Nove a quel furbacchione di Victor, che si finge interessato ad aggiustare la rete del Sassuolo per poi trafiggerla nuovamente. È un uomo in missione Osimhen dal suo rientro, con cinque reti in tre gare e la determinazione negli occhi dei giorni migliori. Tutto ciò che gravita in area di rigore diventa un’infinita possibilità di conversione in gol, perchè Osi ci arriva prima degli altri e con una cattiveria che gli altri si sognano. Fa gol e gonfia i muscoli sotto la curva, senza mai dimenticare il suo obiettivo finale: segnare subito un altro gol. “Quando combatto sono in uno stato semi-onirico. Ti colpiscono così duro che non sai dove sei. Vedi tutte quelle luci e la testa naviga e smetti di pensare e allora ti viene da abbassare le mani. Ma io non le abbasso, le mani. Non so perchè. Nessuno lo sa. Ecco perché sono il più grande”. Firmato Muhammad Ali.
Dieci a quelle trame, pennellate di passato che si riversano come vernice calda sulle pareti della memoria. La valigia dei ricordi è ancora sul letto, perchè nessuno di noi ha avuto mai il coraggio di svuotarla del tutto. Toccata e fuga del georgiano, al chiarore di luna arriva Victor, che chiude la composizione sfiorando appena il ‘Sol’ come ultima nota di questo Inno allo Spallettismo (una sorta di fusione tra i riferimenti culturali di Calzona). Nel dopo gara Ostigard usa la parola chiave ‘Il Pressing’. Quello che Garcia prima, e Mazzarri ancor di più, avevano accantonato. Ma questa squadra tiene l’aggressività nel DNA, non devi sedarla, la devi aizzare contro le folle, gli avversari, i destini. È un Napoli che deve vivere d’assalto. E magari morire d’assalto. Ma fiero e felice, di averci provato restando fedele alla propria natura.
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