Guido Clemente di San Luca a TN su caso Acerbi: "Giustizia Sportiva è arbitraria, il sistema è feudale"
Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, commenta così il caso Acerbi-Juan Jesus.
1. La sentenza sul caso Acerbi/Juan Jesus dell’ineffabile giudice Mastrandrea – è lo stesso che scrisse la ignobile sentenza di primo grado sul caso Juventus-Napoli in tempo di Covid, correttamente riformata in maniera drastica (insieme a quella, ancora peggiore, di secondo grado) dalla decisione del Collegio di garanzia del CONI – sarebbe da salutarsi come un importante segnale di grande speranza per la significativa inversione di tendenza della giustizia sportiva che rappresenterebbe. Perché sembra seguire una linea di pensiero (inusualmente) coerente con i principi dello Stato di diritto, secondo il quale nessuno può essere condannato senza che vi siano prove certe che dimostrino la sua colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.
L’orientamento fin qui consolidato del giudice sportivo (che non richiedeva prove particolari, essendo sufficiente la dichiarazione dell’offeso), peraltro, era coerente con quello del giudice penale (cfr. Cass. pen., sez. 5, 13 febbraio 2020, n. 12920; Sez. Unite, 19 luglio 2012, n. 41461), normalmente seguito dalla Corte federale d’appello (sez. IV, n. 66-2019/2020; sez. I, n. 118-2019/2020) secondo cui «il fatto contestato può essere ritenuto provato anche se il quadro probatorio sia formato dalle sole dichiarazioni della persona offesa, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità della presenza di riscontri esterni». Sebbene – va precisato – nel caso del 2021 concernente il calciatore del Padova Santini, il quadro probatorio si compose, «non solo delle dichiarazioni del giocatore offeso, ma anche di quelle del compagno di squadra testimone dell’accaduto» (Corte federale d’appello, sez. unite, n. 114-2020/2021).
2. Sennonché, lo spiraglio è illusorio. Per varie ragioni. a) Nel testo non v’è traccia delle ragioni che giustificherebbero il mutamento di orientamento, implicando l’ammissione della strutturale approssimazione – e dunque dell’arbitrio assoluto – della giustizia sportiva, per la quale il valore del paradigma normativo è pressoché inesistente, tutta improntata com’è ad una sedicente equità ‘sostanziale’, inflessibile per il debole e accomodante per il potente di turno. b) La decisione presenta un evidente profilo di intrinseca contraddittorietà: se è stata provata l’offesa – come si legge nella sentenza –, non si capisce perché nessuna sanzione viene comminata ad Acerbi. c) L’assunto che vi si sostiene soffre di palese imprecisione e superficialità: quale frase offensiva avrebbe pronunciato Acerbi se non quella dichiarata da Juan Jesus (vai via nero, sei solo un negro!»), perché il giudice afferma che l’offesa c’è stata? Ma qual è? Cosa ha detto Acerbi di offensivo? Nella sentenza si ammette che «è stata raggiunta sicuramente la prova dell’offesa», ma poi si afferma che non vi sarebbe certezza del suo carattere discriminatorio, che secondo il giudice avrebbe percepito «in buona fede» soltanto Juan Jesus. Delle due, l’una. O Acerbi ha detto «vai via nero, sei solo un negro!», e allora non è questione di percezione: la frase è inopinabilmente offensiva e discriminatoria. Oppure ha detto altro (tipo: «ti faccio nero»), e Juan Jesus avrebbe capito male, la frase essendo sì offensiva, ma non discriminatoria (dalle immagini del colloquio dei due con l’arbitro, però, risulta piuttosto nitidamente che non di questo s’era trattato). d) Di fronte a due dichiarazioni diametralmente opposte, l’istruzione probatoria è stata chiaramente insufficiente: perché il giudice crede all’uno, e non all’altro, senza adoperarsi per acquisire conferma o smentita da giocatori diversi? Quali prove testimoniali ha raccolto? Ha ascoltato un numero consistente dei soggetti presenti? O ha affermato che nessuno avrebbe ascoltato frasi discriminatorie, senza chiamare altri a testimoniare, o per essere interrogati? Siamo sicuri che fosse onere di Juan Jesus citare compagni o avversari che avevano sentito l’offesa? Di fronte a due versioni contrastanti, ma in astratto ugualmente credibili, non sarebbe stato compito del giudice integrare le prove di cui avvalersi, convocando altri testimoni, oppure disponendo interrogatori o confronti, allo scopo di accertare meglio la verità?
3. Di regola, in uno Stato di diritto le parole dell’accusatore non sono da sole sufficienti per una condanna (in talune circostanze possono esserlo, previo favorevole scrutinio della loro attendibilità). Tuttavia, sulla sentenza in esame, che si adegua a questo principio, gravano pesanti interrogativi senza risposta. A quanto pare, non v’è prova dell’epiteto discriminatorio. Ma cosa ha accertato il giudice? Perché Acerbi sarebbe stato ritenuto più convincente di Juan Jesus? Che cosa ha ammesso? Quale epiteto avrebbe pronunciato? Ed in che senso l’epiteto sarebbe «offensivo», ma non «discriminatorio»? E perché, se quanto accertato non era sufficiente, il giudice non ha integrato il quadro probatorio? Far riferimento alla «buona fede» di Juan Jesus significa aver creduto alla versione di Acerbi? E perché? E poi quale sarebbe questa versione, «Ti faccio nero!»?
4. Moltissime domande. Troppe. Come tutte quelle che continuiamo a porci invano sulla vergognosa gestione del sistema arbitrale. L’ordinamento del calcio vive in costante violazione della legalità. Una volta tanto che sarebbe stato eticamente condivisibile aggirarla, superando le clamorose ipocrisie sull’antirazzismo, assistiamo invece attoniti al suo sorprendente rivitalizzarsi. C’è poco da fare. Gli interessi dei potenti vanno soddisfatti. Se lo si fa ‘sfruttando’ il rispetto di un indiscutibile principio dello Stato di diritto, non ci si deve illudere. ’A storia è semp’ ’a stessa!
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