Clemente di San Luca a TN su Giuntoli: "Tradimento disgustoso, juventinità sfuggita ad ADL?"
Guido Clemente di San Luca, Ordinario di Diritto Amministrativo all'Università della Campania Luigi Vanvitelli, ha espresso alcune considerazioni sul momento di casa Napoli.
Mentre la ‘malatìa’ tifosa è costretta al riposo – molti (io fra questi) non si lasciano appassionare dai sogni sollecitati dal calcio-mercato, considerando una inutile perdita di tempo inseguire le notizie sulle trattative (tanto, se poi arriva l’offerta indecente, Osi dovremo perderlo per forza) –, l’attualità mi ha fatto riflettere sulle ricadute ‘pallonare’ di due temi generali.
1. Nell’ambito della riforma della giustizia in itinere (per molti aspetti deprecabile, soprattutto perché incapace di ragionare sui reali dati strutturali del relativo sistema), si sta facendo un gran parlare della proposta di abolire il reato di «Abuso di ufficio». Sono stato per decenni un convinto sostenitore dell’abolizione, sin da quando, con la L. 86/1990 (che apportò «Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione»), venne abrogato l’art. 324 del Codice penale, che prevedeva il reato di «Interesse privato in atti di ufficio» (consistente nel determinare la punibilità del «pubblico ufficiale, che […] prende un interesse privato in qualsiasi atto della pubblica Amministrazione presso la quale esercita il proprio ufficio»), lasciandosi in vita soltanto l’abuso. Così facendo, il legislatore s’infilò in un vicolo cieco, che conduceva inevitabilmente a mettere in crisi il principio di separazione dei poteri. Perché?
Secondo il Codice Rocco del 1931, i due reati (i quali, peraltro, trovarono scarsa applicazione) erano ‘concepiti’ come fattispecie assai imprecisamente definite e fra loro poco distinguibili sotto il profilo concettuale (in origine l’art. 323 puniva «Il pubblico ufficiale, che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da una particolare disposizione di legge»). Dei due, ad avere un senso più chiaro era proprio quello che venne abolito. La previsione dell’abuso d’ufficio, infatti, consentiva al giudice penale di non distinguere il vizio dell’atto amministrativo (eccesso di potere) dal reato (abuso di ufficio), in qualche modo giustificando il difetto culturale di cui questi ha mostrato di soffrire non poco, sempre e soprattutto nelle ultime tre decadi.
Fu così che, sull’onda emozionale dell’indagine della Procura di Milano denominata «Mani pulite» (che ebbe inizio nel febbraio 1992), e sotto la spinta di un’opinione pubblica inferocita da questa, il giudice penale sfruttò la elevata indeterminatezza della previsione normativa, permettendosi un indebito sindacato sull’esercizio del potere amministrativo, che in uno Stato di diritto, per la separazione dei poteri, spetterebbe solo (e comunque in maniera limitata) al giudice amministrativo.
Dopo alcune riforme non particolarmente efficaci, il problema sembrava finalmente risolto dalla modifica introdotta con il D.L. 76/2020, secondo cui è punibile, «il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto».
Con questa nuova configurazione (che pare rievocare quella dell’interesse privato in atti d’ufficio sconsideratamente abolito nel 1990), passata peraltro anche al vaglio della Corte costituzionale, le indebite esondazioni del giudice penale sul tipico terreno delle scelte politiche sembravano esser state scongiurate. Eppure, con intento difficilmente comprensibile, il legislatore sta operando per abolire del tutto il reato. Vi chiederete: sì, ma che c’entra questo col pallone?
Ecco. Contro l’abolizione (in oggi effettivamente inutile, se non dannosa) del reato, s’è levata una consistente ondata di protesta da parte di molti giudici, evidentemente desiderosi di continuare ad esercitare il controllo sulle decisioni politiche, ormai circoscritto soltanto a quelle vincolate. Così è balzata agli occhi del giurista tifoso una notevole incoerenza nell’esercizio dell’azione penale (che dovrebbe soggiacere al principio della obbligatorietà). Ma – mi domando – se vogliono tanto ardentemente tenere in vita l’abuso d’ufficio, perché nessuna Procura ha mai aperto un’indagine per frode sportiva, pur essendoci una chiara analogia con l’operare contra legem degli arbitri nelle ipotesi disciplinate dal Protocollo VAR? Anche in tali casi si tratterebbe di attività vincolate, di violazioni obiettive della disposizione. E allora come mai nessuno di tanti zelanti magistrati ha dato avvio all’azione penale, in ossequio alla regola della sua obbligatorietà? L’incongruenza è lampante.
Da inguaribile idealista, continuo a studiare ed insegnare lo Stato di diritto. Tuttavia assistiamo inermi ed impotenti al sistematico e spudorato tradimento delle regole. Si pensi al patteggiamento fra Juventus e Procura Federale, benedetto dal giudice sportivo, il quale ha deciso con un vero e proprio colpo di spugna giudiziario, su illeciti (relativi a plusvalenze, ‘manovra’ stipendi, rapporti con gli agenti e con altri club) pur accertati. Ciò imporrebbe di gridare allo scandalo. E invece si va verso una sconcertante assuefazione. Pericolosissima per la tenuta della vita democratica.
2. La morte di Berlusconi ha imposto di assistere alla sua apologia. Epperò, se (oltre la pietas, che dovrebbe spingere chiunque a riflettere sulla finitezza dell’esistenza e la capacità livellatrice della morte) appare difficile negare che il cavaliere abbia obiettivamente segnato la storia economica, politica e del costume del Paese, lo è altrettanto che l’abbia spaccato nettamente in due. Sicché ove, soggettivamente, si stia (come me) dalla parte di chi l’ha avversato, non si può tacere che il suo avvento abbia costituito (insieme a «Mani pulite») l’evento più devastante e catastrofico per l’antropologia e l’assetto istituzionale dell’Italia. Non è dubbio che vi sia una preoccupante moltitudine che pensa diversamente. Ma ciò non può impedire di manifestare la convinzione opposta.
E allora? Ancora: che c’entra col pallone? Ecco. Non appena ne è stato dato l’annuncio, ho subito commentato: «Garcia non mi dispiace affatto». E più ci penso, più mi pare una scelta intelligente. Qualcuno se n’è meravigliato. Come se io fossi sempre, pregiudizialmente, critico con ADL. È falso. Sono ancora sufficientemente lucido da saper distinguere fra scelte discutibili e scelte apprezzabili, fra comportamenti che generano antipatia o simpatia. In un ordinamento liberaldemocratico, avanzare critiche per scelte o comportamenti che non si condividono resta attitudine imprescindibile della condizione umana. E, più in generale, elemento costitutivo della intelligenza.
Trovo perciò preoccupante che, siccome finalmente (dopo 33 anni!) siamo tornati a vincere lo scudetto, ciò determini una sorta di beatificazione/santificazione del Presidente. Quasi a considerarlo una sorta di re Mida, che rende oro tutto ciò che tocca. Non si può dimenticare, infatti, che il paradigma è infelice, quel re essendo alla fine costretto a capire che il denaro non determina, di per sé, la felicità, e che, invece, avidità e cupidigia conducono alla morte. Del resto, come canta De Gregori, «un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Dai valori che esprime, dunque, e non necessariamente dal risultato che consegue. Si può pure «sbagliare un calcio di rigore». L’importante è giocare con impegno e creatività immaginifica.
Riconoscere i meriti di un’esperienza, quindi, non può significare consegnare ad essa la patente di ‘modello’. Benché abbia dato prova (per nostra fortuna) di grande efficacia, la modalità di gestione familiare della società non è scambiabile con un innovativo modello generale di organizzazione aziendale, essendo replicabile soltanto in presenza di peculiari e particolarissime circostanze. Insomma, non condivido l’opinione secondo cui sarebbe quasi sacrilego discutere delle scelte di ADL, come se la conquista del titolo ne avesse fatto un’icona della infallibilità. Anzi. Ad esempio, siamo proprio sicuri che nel dichiarato «bisogno di riposo» di Spalletti non vi sia anche una sopravvenuta difficoltà umana di continuare a relazionarsi col Presidente?
Per non dire del disgustoso tradimento di Giuntoli. Se il comportamento del direttore può pure ritenersi virtuoso sul piano professionale, su quello umano merita la qualifica di autentica, nauseante, fellonia. Ma – sia chiaro – non, come vorrebbe una superficiale vulgata, per non aver «rispettato il contratto». Perché questo non va confuso con la volontà negoziale che l’ha generato. Se la volontà negoziale viene meno, il contratto si rispetta anche mediante la sua risoluzione, che regola appunto il caso in cui essa non corrisponde più a quella che l’originò. La questione è un’altra. Sta nelle ragioni sostanziali che hanno modificato la volontà negoziale.
Com’è potuto sfuggire alla indiscutibile sagacia del Presidente di avere sul libro paga un dipendente apicale improntato alla detestabile «juventinità»? E ove ne sia stato consapevole, come ha potuto non astenersi dall’alimentare una così insopportabile ipocrisia?
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